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Ho sempre apprezzato l’epopea di Fantozzi, dapprima come film comico, poi, con maggiore senno, come ritratto a tinte forti di quella nascente borghesia operaia, in costante affanno e conflitto con un mondo che a velocità sempre più vertiginosa cambiava ed imponeva di cambiare. Fantozzi, mite e semplice uomo sovente proietatto in situazioni più grandi di lui, talora suo malgrado, talora per puerile pulsione di rivalsa o di affermazione. Ma dopo le rocambolesche ed esilaranti disavventure Fantozzi si ferma e riflette, e nonostante “quella specie di curioso animale domestico” che ha sposato comprende che la felicità non è nell’ufficio con “piante di ficus e poltrona in pelle umana” ma nella tranquilla quotidianità e nella semplicità degli affetti. I film di Fantozzi, come tutte le opere dei grandi comici, fanno ridere solo all’apparenza, e tra le risa sguaiate fanno arrivare a destinazione, sottovoce, il loro messaggio nascosto.
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